martedì 6 dicembre 2016

BULLISMO E NICHILISMO: LA BUONA SCUOLA DI OGGI
Il video che da qualche giorno circola in rete, realizzato da uno studente (forse neppure di nascosto) mentre un suo compagno è intento a urlare in faccia ad una giovane insegnante, insultandola come se niente fosse e facendo continuo uso di parole volgari e offensive, ci restituisce l’immagine di una realtà che definire squallida e desolante sarebbe forse un eufemismo. Eppure non bisogna pensare che quanto accaduto in quell’aula di scuola rappresenti una situazione episodica, una eccezione occasionale che, proprio in virtù della sua evidente spettacolarità, può essere senza difficoltà identificata, sanzionata e, pertanto, considerata “sotto controllo”. Ovviamente i nostalgici di una scuola “vecchio stampo” (tra i quali forse, in certi momenti, anche il sottoscritto si colloca) hanno un bel da fare a rimpiangere “i bei tempi andati” in cui un episodio del genere sarebbe stato immediatamente punito, senza possibilità di revoca, con l’espulsione dell’allievo in questione dalla scuola; ma purtroppo la situazione non è così semplice, per una serie di motivi che cercherò brevemente di illustrare.
In primo luogo, va tenuto presente che ciò che si è verificato in quell’aula è lo specchio di ciò che, con sempre maggior frequenza, sta avvenendo nella nostra società, perfino in contesti che non necessariamente sono di degrado o disagio economico. Il problema che emerge con evidenza è quello dell’atteggiamento sempre meno civile dei ragazzi: uso non casualmente l’aggettivo civile, perché esso, riferito alla condotta, indica il senso di appartenenza ad una comunità all’interno della quale i rapporti interpersonali sono regolati da una serie di norme comportamentali, necessarie per una convivenza pacifica. Dunque i nostri giovani sono tendenzialmente in-civili. Il ragazzo che si è reso protagonista di questa vicenda, semplicemente,  “non si sa comportare”; certo possiamo indagare a fondo, con gli strumenti offerti dalla psicologia e dalla sociologia, le cause di tale evidente deficienza, ma le risposte vanno ricercate nella condizione storico-filosofico-culturale del nostro tempo. Tale condizione (e non dico nulla di nuovo o originale) si chiama nichilismo.
Gli studenti che nel 68 “contestavano le regole”, suscitando l’indignazione della generazione precedente (genitori, insegnanti, in generale tutti i “benpensanti”), erano assolutamente consapevoli di ciò che stavano facendo e del significato simbolico delle loro azioni. Non sto dando qui un giudizio di valore (anche perché il sottoscritto non è propriamente un simpatizzante dei movimenti “sessantottini”); mi limito a descrivere un fatto. I contestatori di allora sapevano bene che cosa fosse una regola e, proprio per questo, ne criticavano i fondamenti (ad esempio il classismo di matrice borghese); in tal modo si scagliavano contro “il sistema”,  volevano l’abbattimento di un certo tipo di società e la istituzione di una nuova civitas, fondata su regole nuove.
I giovani di oggi, invece, (e il filmato di cui stiamo parlando ne è la prova lampante) non vogliono infrangere consapevolmente alcuna regola: essi, semplicemente, le ignorano! Questi ragazzi non hanno la più pallida idea, non si rendono minimamente conto di che cosa sia una norma, un codice, una legge; ed è per questo motivo che io sono abbastanza persuaso del fatto che,  anche se quel ragazzo venisse duramente punito per ciò che ha fatto (per esempio con l’espulsione dalla scuola e l’obbligo di fare per sei mesi lavori socialmente utili), egli sarebbe comunque convinto di avere subito un torto. In altre parole: non si rende conto. E come, del resto, potrebbe? Se il nichilismo è veramente ciò che Nietzsche, più di un secolo fa’ ha scritto, e cioè: “Manca il fine, manca la risposta al perché”, allora l’esistenza stessa di una regola, di una norma, di un codice di comportamento risulta di fatto incomprensibile. Inoltre, non si deve credere che gli altri compagni, quelli che in quel momento “non hanno fatto niente”, la pensino in modo diverso da lui; la loro condotta (così come probabilmente quella del Nostro in altre circostanze) è regolata semplicemente da un elementare calcolo utilitaristico, per cui “in questo momento non mi conviene mettermi contro il professore”; ne è prova il fatto che l’intera classe, invece di comprendere la gravità della situazione, difendendo l’insegnante o cercando di fermare il proprio compagno,  non faceva che ridere apertamente e rumorosamente. La scena non restituiva, a nessuno dei presenti, qualche cosa di sbagliato, di ingiusto, di sconveniente: anzi, essa forniva solo l’occasione per farsi due risate. Nessun ragazzo si è indignato nel vedere quanto accadeva.
Per questi ragazzi tutto è infinito presente privo di senso, la regola viene rispettata solo se farlo non costa particolari sacrifici; diversamente è un ostacolo da aggirare, senza porsi particolari problemi. Dunque la seconda considerazione da fare è la seguente: quanto può essere efficace una punizione? Si dice che in una società civile la punizione dovrebbe sempre avere anche una finalità di tipo correttivo: ma come si può correggere un modo così diffuso di pensare, di comportarsi, in altre parole di vivere? Il ragazzo dovrebbe essere punito, questo lo sappiamo tutti; ma allora, perché non punire anche tutti quelli che sghignazzavano senza ritegno, dando prova di non aver minimamente compreso la gravità della situazione? La verità è che questa è la situazione in cui vivono migliaia di giovani, abbandonati a loro stessi, senza una guida e senza una direzione.

Che fare? Non ho risposte facili da offrire. Il nostro, purtroppo, non è un tempo che lasci molto margine alla speranza. Se il problema è di carattere culturale, anzi forse addirittura epocale, la soluzione può stare solo in un radicale rinnovamento del modo di pensare; ma quando e in che modo tutto ciò possa avvenire non è facile a dirsi.

giovedì 5 maggio 2016

2001: Odissea nello Spazio. Un tentativo di lettura

Nonostante l’assenza di una linearità intesa nel senso classico del termine (inizio, svolgimento, conclusione), e d’altro canto l’abbondanza di forme e riferimenti simbolici, che permetterebbero svariati tipi di interpretazione, il capolavoro di Kubrick non è privo, a mio giudizio, di indicazioni ben precise che il regista fornisce per una adeguata comprensione del suo film.
Innanzitutto è necessario rivolgere l’attenzione verso due elementi fondamentali, che compaiono all’inizio del lungometraggio, in pratica contemporaneamente; questi sono, precisamente, il titolo e la colonna sonora. Cominciamo col primo.
La parola centrale del titolo è “Odissea”, la quale richiama luoghi, tempi e personaggi ben definiti. Come tutti sanno, il poema omerico narra le vicende del re di di Itaca, Ulisse, al tempo della guerra di Troia. Il protagonista, dopo aver conquistato la città nemica, è costretto a vagare in mare per vent’anni, prima di poter fare ritorno nella sua patria. Dopo esser approdato in terre sconosciute, imbattendosi in bizzarri esseri più o meno ostili (ai quali riesce sempre a sfuggire), e dopo aver perduto tutti i suoi compagni di viaggio, l’eroe greco riesce finalmente, da solo, a ritornare nella sua patria e a riappropriarsi di tutto ciò che un tempo era suo. Le avventure di Ulisse sono in realtà un viaggio nelle profondità della natura umana, un viaggio che  tutti i coraggiosi sono costretti ad intraprendere ma non tutti riescono a concludere, alla fine del quale, nella propria solitudine soltanto, ci si può riappropriare di se stessi.
Il secondo elemento, come dicevamo prima, è la colonna sonora. La musica iniziale, imponente e maestosa, (e che esplode nel suo massimo vigore proprio mentre appare in sovraimpressione la scritta “2001: Odissea nello Spazio”) è tratta da un’opera di Richard Strauss che si intitola “Così parlò Zarathustra”; e non può certamente essere un caso che questo sia anche il titolo di una delle opere più famose di Friedrich Nietzsche. Così, già all’inizio del film, il regista ci offre due importanti chiavi di lettura per decifrare la sua opera; e dunque, come è importante avere qualche nozione basilare circa la storia e il significato dell’ Odissea di Omero, allo stesso modo si dovrebbe conoscere, almeno per sommi capi, i punti fondamentali della filosofia di Nietzsche e, in particolare, lo Zarathustra. In questo scritto, il filosofo tedesco tocca, con il suo stile profetico e dionisiaco, diversi temi che si intersecano tra loro, ma per comodità ne citeremo soltanto tre. Essi sono: la critica verso una ragione mummificata, la dottrina dell’oltre-uomo, l’idea dell’eterno ritorno. Per Nietzsche l’oltre-uomo può essere soltanto un individuo coraggioso il quale, dopo essersi liberato da tutti i pregiudizi derivati da tradizione, morale, religione, metafisica (che sono il prodotto di una ragione cristallizzata e morta), può finalmente andare oltre, superare se stesso, e così diventare ciò che realmente è. In questo ritrovarsi, l’oltre-uomo scorge l’assoluto nella propria finitezza, poiché oltre se stesso egli trova ancora e sempre se stesso, infinitamente, senza soluzione di continuità. Nessun Dio, nessun aldilà, nessun progresso: il tempo non si risolve in una dimensione trascendente rispetto ad esso. Ritorna, eternamente, sempre uguale a sé.

Tenendo in considerazione quanto appena detto, è facile intravedere come inizino a delinearsi alcuni punti fondamentali del film. E’ chiaro che tali linee interpretative è possibile tracciarle solamente dopo aver visto il lungometraggio nel suo complesso, ma questa è sicuramente anche la volontà del regista. Anzi, fa parte dello spirito dell’opera stessa. Le due più importanti chiavi di lettura (il titolo e la musica) compaiono all’inizio del film, ma da sole non dicono niente: in tal modo, è possibile capire il principio soltanto per mezzo della fine, e la fine soltanto per mezzo del principio.
La nostra analisi, però, è appena all’inizio; adesso dobbiamo dire qualcosa in modo più dettagliato e per questo volgiamo l’attenzione verso il contenuto delle singole scene. La prima parte del film dura circa venti minuti, è assolutamente priva di dialogo e si intitola “The dawn of the man”; in italiano è stato tradotto, molto correttamente, con “L’alba dell’uomo”, dove “alba” sta per origine, principio, albori. La terra è popolata soltanto di animali che vivono solo d’istinto; l’uomo non si distingue dalle altre bestie, se non forse per la sua debolezza. La ragione, rappresentata da un inquietante monolito nero, irrompe improvvisamente nella storia, come qualcosa di assolutamente “alieno”. Non un lungo processo evolutivo permette agli ominidi di diventare esseri pensanti; bensì un fatto assolutamente straordinario, quasi assurdo, è la scintilla che fa avviare il motore dell’umanità. L’ominide tocca il monolito, comparso misteriosamente dal nulla, e acquista l’intelligenza. E’ nato il pensiero. Quando questo primitivo percuote con un osso una carcassa di animale, capisce che quell’azione non ha un valore rinchiuso nelle sue coordinate spazio-temporali, ma ha invece una portata  universale. L’uomo scopre il concetto, grazie al quale è capace di prevedere, inventare, immaginare; e ne fa subito uso, avendo capito che quell’osso può essere usato come un’arma per abbattere qualunque animale.
L’osso scagliato in aria dall’ominide, ormai uomo-pensante, diventa un’astronave. Siamo di fronte, probabilmente, ad una delle più belle inquadrature mai realizzate nella storia del cinema. Fine della prima parte, inizio della seconda. E’ l’apice della ragione. Tra l’osso lanciato in aria e l’astronave sono passati quattro milioni e mezzo di anni, ma in fondo queste due immagini rappresentano la stessa cosa. Non c’è differenza; sono entrambe il prodotto di una medesima ragione. 2001: la capacità creativa dell’uomo è al suo massimo livello, al vertice. Le astronavi danzano al ritmo di valzer, tutto l’universo risuona della musica dell’intelletto; una musica festosa, potente, piena di vita. Non c’è un’inquadratura di astronavi che non sia accompagnata da queste vivacissime melodie. Non solo: il walzer dà l’idea di una musica geometrica, e la geometria rimanda proprio alla capacità dell’intelletto di astrarre. Di precisa forma geometrica, inoltre, era anche il monolito.
A questo punto, tuttavia, sorge un problema. Il monolito, che avevamo visto presente sulla Terra quattro milioni e mezzo di anni prima, viene trovato sulla luna. Da alcuni dialoghi si capisce che esso non si trova lì per caso: anzi, viene esplicitamente detto che è stato “deliberatamente sepolto”, proprio quattro milioni e mezzo di anni prima. Che cosa può significare questo? Esso inoltre è sepolto sulla Luna; la ragione è forse già evaporata nell’atto stesso del suo sorgere?? E’ plausibile, perché tale è l’idea del nichilismo. Nietzsche e Heidegger non hanno fatto essere il nichilismo, hanno mostrato come l’esito della storia della ragione umana non può che essere il nichilismo. Quindi è probabile che la ragione, la cui essenza è tecnica e violenza, condanni già se stessa al proprio declino.
Infatti, proprio grazie alla ragione, cioè alla tecnica, l’uomo costruisce l’intelligenza artificiale, che è in grado di superare quella umana. Ma l’intelligenza artificiale, proprio perché superiore a quella umana, non sa più cosa farsene dell’uomo e per questo vuole eliminarlo. Tale è infatti l’essenza della tecnica; l’eliminazione dell’umano. Questa rivolta della ragione-tecnica contro l’uomo è rappresentata dall’avaria di Hal 9000 nel bel mezzo della missione spaziale su Giove. Essa, però,  significa molto di più di una semplice rivolta della macchina contro l’uomo, quale viene mostrata, ad esempio, in film come “Matrix” o “Terminator”; qui siamo di fronte a quella che il filosofo Horkheimer chiama “eclisse della ragione”, cioè l’incapacità nichilistica della ragione di arrestarsi di fronte ai propri obiettivi, anche se questi rappresentano un pericolo distruttivo per l’uomo o per il mondo. 
L’essenza della tecnica (che è l’esito ultimo del percorso della ragione) risiede tuttavia proprio nella sua assoluta indifferenza rispetto a qualsiasi criterio etico di condotta; nell’età della tecnica, infatti, l’uomo non dispone di un’etica che possa indirizzare o contenere le sue azioni.
C’è però una via di salvezza, una mistica redentrice che in realtà non redime. All’uomo non resta che procedere “oltre l’infinito”, cioè oltre tutte le certezze, oltre questo mondo, oltre ogni fondamento dell’essere. Ma ormai oltre l’uomo c’è solo l’uomo stesso, in una nietzscheana logica di eterno ritorno, per cui la fine e il principio coincidono come in un circolo.