BULLISMO E NICHILISMO: LA BUONA
SCUOLA DI OGGI
Il video che
da qualche giorno circola in rete, realizzato da uno studente (forse neppure di
nascosto) mentre un suo compagno è intento a urlare in faccia ad una giovane
insegnante, insultandola come se niente fosse e facendo continuo uso di parole
volgari e offensive, ci restituisce l’immagine di una realtà che definire
squallida e desolante sarebbe forse un eufemismo. Eppure non bisogna pensare
che quanto accaduto in quell’aula di scuola rappresenti una situazione
episodica, una eccezione occasionale che, proprio in virtù della sua evidente
spettacolarità, può essere senza difficoltà identificata, sanzionata e,
pertanto, considerata “sotto controllo”. Ovviamente i nostalgici di una scuola
“vecchio stampo” (tra i quali forse, in certi momenti, anche il sottoscritto si
colloca) hanno un bel da fare a rimpiangere “i bei tempi andati” in cui un
episodio del genere sarebbe stato immediatamente punito, senza possibilità di
revoca, con l’espulsione dell’allievo in questione dalla scuola; ma purtroppo
la situazione non è così semplice, per una serie di motivi che cercherò
brevemente di illustrare.
In primo
luogo, va tenuto presente che ciò che si è verificato in quell’aula è lo
specchio di ciò che, con sempre maggior frequenza, sta avvenendo nella nostra
società, perfino in contesti che non necessariamente sono di degrado o disagio
economico. Il problema che emerge con evidenza è quello dell’atteggiamento
sempre meno civile dei ragazzi: uso
non casualmente l’aggettivo civile,
perché esso, riferito alla condotta, indica il senso di appartenenza ad una
comunità all’interno della quale i rapporti interpersonali sono regolati da una
serie di norme comportamentali, necessarie per una convivenza pacifica. Dunque
i nostri giovani sono tendenzialmente in-civili.
Il ragazzo che si è reso protagonista di questa vicenda, semplicemente, “non si sa comportare”; certo possiamo
indagare a fondo, con gli strumenti offerti dalla psicologia e dalla
sociologia, le cause di tale evidente
deficienza, ma le risposte vanno ricercate nella condizione
storico-filosofico-culturale del nostro tempo. Tale condizione (e non dico
nulla di nuovo o originale) si chiama nichilismo.
Gli studenti
che nel 68 “contestavano le regole”, suscitando l’indignazione della
generazione precedente (genitori, insegnanti, in generale tutti i “benpensanti”),
erano assolutamente consapevoli di
ciò che stavano facendo e del significato
simbolico delle loro azioni. Non sto dando qui un giudizio di valore (anche
perché il sottoscritto non è propriamente un simpatizzante dei movimenti
“sessantottini”); mi limito a descrivere un fatto. I contestatori di allora
sapevano bene che cosa fosse una regola e, proprio per questo, ne criticavano i
fondamenti (ad esempio il classismo di matrice borghese); in tal modo si
scagliavano contro “il sistema”,
volevano l’abbattimento di un certo tipo di società e la istituzione di
una nuova civitas, fondata su regole
nuove.
I giovani di
oggi, invece, (e il filmato di cui stiamo parlando ne è la prova lampante) non vogliono infrangere consapevolmente
alcuna regola: essi, semplicemente, le ignorano! Questi ragazzi non hanno la
più pallida idea, non si rendono minimamente conto di che cosa sia una norma,
un codice, una legge; ed è per questo motivo che io sono abbastanza persuaso
del fatto che, anche se quel ragazzo
venisse duramente punito per ciò che ha fatto (per esempio con l’espulsione
dalla scuola e l’obbligo di fare per sei mesi lavori socialmente utili), egli
sarebbe comunque convinto di avere subito un torto. In altre parole: non si
rende conto. E come, del resto, potrebbe? Se il nichilismo è veramente ciò che
Nietzsche, più di un secolo fa’ ha scritto, e cioè: “Manca il fine, manca la
risposta al perché”, allora l’esistenza stessa di una regola, di una norma, di
un codice di comportamento risulta di fatto incomprensibile.
Inoltre, non si deve credere che gli altri compagni, quelli che in quel momento
“non hanno fatto niente”, la pensino in modo diverso da lui; la loro condotta
(così come probabilmente quella del Nostro in altre circostanze) è regolata
semplicemente da un elementare calcolo utilitaristico, per cui “in questo
momento non mi conviene mettermi contro il professore”; ne è prova il fatto che
l’intera classe, invece di comprendere la gravità della situazione, difendendo
l’insegnante o cercando di fermare il proprio compagno, non faceva che ridere apertamente e
rumorosamente. La scena non restituiva, a nessuno dei presenti, qualche cosa di
sbagliato, di ingiusto, di sconveniente: anzi, essa forniva solo l’occasione
per farsi due risate. Nessun ragazzo si è indignato nel vedere quanto accadeva.
Per questi
ragazzi tutto è infinito presente privo di senso, la regola viene rispettata
solo se farlo non costa particolari sacrifici; diversamente è un ostacolo da
aggirare, senza porsi particolari problemi. Dunque la seconda considerazione da
fare è la seguente: quanto può essere efficace una punizione? Si dice che in
una società civile la punizione dovrebbe sempre avere anche una finalità di
tipo correttivo: ma come si può correggere un modo così diffuso di pensare, di
comportarsi, in altre parole di vivere? Il ragazzo dovrebbe essere punito, questo lo sappiamo tutti; ma allora, perché
non punire anche tutti quelli che sghignazzavano senza ritegno, dando prova di
non aver minimamente compreso la gravità della situazione? La verità è che
questa è la situazione in cui vivono migliaia di giovani, abbandonati a loro
stessi, senza una guida e senza una direzione.
Che fare?
Non ho risposte facili da offrire. Il nostro, purtroppo, non è un tempo che
lasci molto margine alla speranza. Se il problema è di carattere culturale,
anzi forse addirittura epocale, la
soluzione può stare solo in un radicale rinnovamento del modo di pensare; ma
quando e in che modo tutto ciò possa avvenire non è facile a dirsi.